Nei lontani anni ’55/ ’57, poco più che ventenne e munita di un recente diploma biennale di assistente sociale, di enorme entusiasmo per la professione intrapresa e che sentivo profondamente mia, approdavo a Frosinone, terra sconosciuta ed estranea alla mia cultura di “ragazza del nord”.
Presi servizio presso l’Ente per la Protezione Morale del Fanciullo (ENPMF) con la qualifica di “aiuto assistente sociale”, ma con la piena responsabilità delle scelte e dell’operatività professionale. L’ENPMF aveva finalità di tutela dell’infanzia e erogava prestazioni di servizio sociale. Di questa nuova disciplina aveva adottato finalità, metodologie, pluridimensionalità dell’approccio e la stessa filosofia fondante: il rispetto per la persona e la globalità dell’intervento, il che implicava ciò che oggi chiameremmo, in relazione a recentissime acquisizioni filosofiche, la lettura della complessità.
Tutto ciò va ovviamente rapportato ai tempi e alle conoscenze scientifiche di cui si era in possesso all’epoca, ma anche alle scelte e agli impulsi politici che, sia pur con grandi contraddizioni, miravano alla democratizzazione del Paese e quindi a ridare uno status ai cittadini, già sudditi di un regno e di un regime.
L’ONMI e l’ENAOLI[1] operavano a Frosinone nel campo dell’assistenza all’infanzia avvalendosi di una propria assistente sociale attuando interventi che prevedevano principalmente l’istituzionalizzazione dei ragazzi e prestazioni economiche (sussidi) a sostegno delle famiglie povere. Gli interventi degli assistenti sociali erano quindi molto stereotipati e legati alle prassi degli enti e all’attuazione delle finalità istituzionali (per l’ONMI, il cui presidente era il politico locale collegato all’Onorevole Andreotti, anche importanti questioni clientelari e interessi elettorali). Per questi enti la lettura del territorio, il coinvolgimento di altri organi e istituzioni, non erano nella progettualità e nella prassi operativa, né erano, come nell’ ENPMF, sostenuti da un’organizzazione e da una politica dell’Ente.
L’ENPMF considerava invece il servizio sociale come la propria ragione di essere, lo strumento di lettura della realtà sociale in cui operava per l’individuazione di interventi alternativi e la chiamata in causa di altre strutture per affrontare una realtà complessa. L’obiettivo era la crescita culturale intorno ai problemi dell’infanzia, in un’ottica di compartecipazione delle varie realtà sociali e istituzionali alla luce delle più recenti acquisizioni pedagogiche, psicologiche e del servizio sociale.
Lavorare nell’ENPMF costituiva per un assistente sociale ciò che per un calciatore è giocare in serie A. La selezione per accedervi era dura: colloqui, stage residenziale, valutazione che verteva non solo sulla preparazione professionale ma anche sulle caratteristiche personali.
L’assistente sociale costituiva di fatto il fulcro dell’Ente nelle sue varie articolazioni, in particolare del Centro di Servizio Sociale (CSS) e del Centro Medico Psicopedagogico (CMPP), che era dotato di due consulenti, un pedopsichiatra e un medico psicologo. L’operatore che doveva tradurre nella pratica operativa le decisioni assunte dall’equipe del CMPP era l’assistente sociale.
Le riflessioni che propongo qui partono dal ritrovamento di una relazione di servizio reperita da un giornalista nell’Archivio di Stato di Frosinone dove fu conferita la documentazione dell’ENPMF a seguito della sua chiusura. Questo documento, ormai “storico”, unitamente ad altri materiali che permettono di leggere uno spaccato della vita interna dell’Ente, verrà consegnato alla SOSTOSS per arricchire la documentazione relativa all’ENPMF.
Nel rileggere questo documento, mi è venuto spontaneo riflettere su un servizio sociale ancora agli esordi, ma già agente di critica e di cambiamento nella realtà sociale e politica. Sia pure costituendo un documento istituzionale, che risponde a quesiti precisi, la relazione fa trasparire profonda sensibilità e sintonia con la realtà sociale e l’impegno a interpretarne i bisogni. Questo documento può essere correlato con ciò che molti anni dopo, con un bagaglio culturale ed esperienziale assai diverso, ho scritto nel capitolo dedicato all’esperienza di Frosinone nel mio libro autobiografico “Sette paia di scarpe”[2].
Ho descritto lo stato di miseria in cui versava la popolazione del territorio. Dico miseria perché nella popolazione non vi era traccia di consapevolezza e tanto meno di volontà/capacità di individuarne le cause. Perché le relazioni tra le persone e le scelte di vita erano legate all’immediato e prive di prospettive.
Non si intravedevano le risorse capaci di sollevare e risollevare la vita civile né ci si metteva personalmente in causa per un cambiamento della propria situazione personale. Tutto veniva da fuori, dall’alto, e poteva essere ottenuto ricambiando con la devozione e il proprio voto. La politica locale e nazionale sfruttavano questa miseria culturale a fini elettorali e si perpetuava un costume per cui non esistevano nei fatti i diritti delle persone ma l’inveterata abitudine di ricorrere alla raccomandazione e all’elargizione benefica. Diritti e dignità della persona in un Paese abituato a chiedere e ad ottenere solo attraverso la benevolenza del potente, non avevano spazio per essere riconosciuti ed affermati. Forse la stessa impostazione dell’ENPMF e gli interventi del servizio sociale erano addirittura utopici oltreché estranei alla mentalità e al costume e di difficile penetrazione e assimilazione.
Nel tempo, hanno sicuramente introdotto un mutamento culturale e posto le basi per un cambiamento, anche se l’attuale assetto dei servizi alla persona induce qualche riflessione e qualche dubbio.
Gli episodi riportati in “Sette Paia di Scarpe” offrono uno spaccato della realtà sociale in cui la miseria era pervasiva e non solo materiale, poiché si traduceva in assenza di prospettive, di senso di sé e di speranza.
Gli assistenti sociali si sentivano investiti di una funzione anche politica e in realtà sia l’esperienza dell’ENPMF che L’indagine parlamentare sulla miseria e i mezzi per combatterla[3], recentemente riproposta dalla SOSTOSS, ci fanno riflettere su una politica che affronta un fenomeno grave che coinvolge tutto il Paese cercando al contempo strumenti idonei per affrontarlo, tenendo d’occhio le acquisizioni scientifiche e le sperimentazioni nel sociale. Un mondo politico che dell’impegno assistenziale formula un progetto e lo propone in una prospettiva di riforma.
All’epoca gli operatori degli enti pubblici giuravano fedeltà alla Repubblica e ciò segnava profondamente il loro ruolo e il significato della loro presenza negli enti.
Vi entravano per realizzare un progetto del quale erano partecipi, data la matrice costituzionale (articolo 3 della Costituzione) che definiva e caratterizzava la nascita della professione che era in sintonia con programmi e impegni del governo centrale. Gli assistenti sociali erano entrati negli enti di assistenza proprio in relazione al riconoscimento della idoneità della professione a realizzare progetti di restituzione alle persone dello status di cittadino e la chiamata di questo alla partecipazione sociale, al cambiamento del rapporto tra le istituzioni e i cittadini. Erano un pezzo fondamentale dello Stato e si sentivano responsabili di questa investitura.
Un progetto condiviso dall’AAI[4] (Amministrazione per le Attività Assistenziali Italiane ed Internazionali). Forse proprio l’estraneità o il superamento degli standard burocratici, che sicuramente consentono maggior potere e maggior discrezionalità del politico di turno, hanno portato alla chiusura di programmi di cui si riconoscono oggi soprattutto gli slogan sopravvissuti nella frantumazione e nella nuova categorizzazione dei modelli di intervento assistenziale. Nell’assenza di progetto complessivo di società a seguito della caduta delle ideologie.
Oggi all’assistenza, di cui si valutano e ponderano i costi, si chiede di “rispondere ai bisogni”, in un progetto che ha riguardo soprattutto alla sicurezza e alla stabilità sociali. I bisogni vengono definiti dai media, dai partiti politici, dagli stessi attori che andranno a realizzare le strutture e i servizi, individuando e scegliendo l’ambito di intervento e i possibili fruitori. I servizi sono contrattati al minimo di spesa e gli operatori pagati in relazione e talvolta solo quando la pubblica amministrazione dispone dei fondi.
E’ chiaro che solo l’etica professionale può consentire al professionista di agire interpretando al meglio e con piena disponibilità la funzione propria. Talvolta la fedeltà al mandato professionale confligge con la politica e ancor più con le disposizioni dell’istituzione cui l’operatore appartiene.
Il quadro di riferimento è confuso e contraddittorio e gli operatori sono precari e sentono arginare il dissenso e le contraddizioni, non di interpretare un progetto di cambiamento e di promozione sociale.
Penso a Frosinone negli anni ’50-’60, a una società misera ma anche omogenea, di contro alla società in cui si trovano a vivere e lavorare i miei attuali colleghi, densa di contraddizioni e conflitti, in cui quotidianamente viene posto in discussione il disegno di società e la stessa meta da perseguire. Colleghi che sono stati certamente informati più di quelli della mia generazione, ma non hanno ricevuto il mandato professionale, “l’abito professionale”, perché i docenti dell’università non lo possiedono essi stessi, in quanto formati per altre professioni.
Stiamo assistendo a un’inversione di rotta che è tutta a sfavore degli assistenti sociali, chiamati ad assolvere alla funzione di “tecnici dell’assistenza”, deprivati della funzione essenziale della professione, che ha assolto negli anni della rinascita democratica al compito, riconosciuto, di raccordo tra un progetto politico di cambiamento e l’intervento concreto sul singolo caso, sul gruppo sociale, sulle condizioni di vita di una comunità.
Nell’occasione in cui si riporta all’attenzione l’impegno del Parlamento L’indagine parlamentare sulla miseria e i mezzi per combatterla, mi sembra importante sottolineare un disegno istituzionale politico che include gli strumenti di intervento: ricerca, sperimentazione, acquisizioni scientifiche, anche acquisite in altri Paesi. Forse questi aspetti non sono stati sufficientemente valorizzati a fronte della rilevazione che riguarda le condizioni in cui si dibatteva la popolazione. Mi sembra giusto sottolineare come, al di là di assenza di titolo di studio e giuridici, la professione di assistente sociale ricevesse nei fatti una legittimazione che nell’attualità sembra, al di là dei riconoscimenti conseguiti, messa in discussione.
Si tratta di concepire un disegno di assistenza che abbia un fine e una sua dignità, un fondamento filosofico ed etico, che non rigetti questo settore nell’ambito della filantropia, lo riconsegni all’iniziativa privata, frantumandolo in singole iniziative e in settori con riferimento alle categorie, con sostegni economici inadeguati ed anche rimessi ad una disponibilità segnata dall’incertezza.
La società di Frosinone e della generalità dell’Italia dell’epoca era di fatto omogenea, mentre oggi siamo di fronte ad una società frantumata, confusa, senza senso di sé, fortemente conflittuale, priva di prospettive di sviluppo e affermazione della persona e dei diritti che ne fanno un cittadino.
Di contro, nella popolazione si è affermato un rifiuto generalizzato dell’intervento istituzionale, da quello relativo alle vaccinazioni, a quello dell’ordine pubblico, di cui l’assistente sociale viene percepito come espressione. Il fondamento della professione, “l’aiuto alla persona”, viene ignorato, mentre si enfatizza l’aspetto punitivo e negativo (vedi allontanamento dei minori). Sembra che il fine della professione sia il ripristino dell’ordine di un’astratta legalità e non il sostegno alla persona per il conseguimento di una realizzazione, di un riconoscimento e di una promozione personale. É ben chiaro che i cittadini non si sentono presi in carico nei loro bisogni, cui si tende a rispondere sul piano economico, ma di cui vengono ignorate la dignità e le aspirazioni.
C’è innegabilmente una discrepanza tra il dettato del codice deontologico, che enfatizza l’impegno della professione alla promozione dei diritti, e quanto è dato perseguire e realizzare da un assistente sociale appartenente al mondo delle cooperative, precario e sottopagato, con un rapporto che ne limita l’attività in tempi brevi, inficiando anche il senso e lo sviluppo della relazione interpersonale con le persone prese in carico. I rapporti fra le cooperative e i vari organismi privati che operano nel sociale e coloro che detengono il potere, sono determinati dalle procedure burocratiche e dall’assegnazione dei fondi.
A questa vicenda sono estranei i controlli, ma soprattutto un disegno complessivo che valorizzi il singolo apporto e determini e qualifichi una finalità comune.
L’assistente sociale, che in sessant’anni si è sempre sentito ed è stato percepito come protagonista di cambiamento ed affermazione di diritto della persona, torna ad essere uno strumento operativo di strutture che realizzano interventi limitati e talvolta privi di qualità?
Paola Rossi
[1]ONMI- Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia; ENAOLI- Ente Nazionale Assistenza agli Orfani dei Lavoratori
[2]Rossi, P. “Sette paia di scarpe– Storia di un’assistente sociale raccolta da Francesco Abiuso.” Maggioli, 2011.
[3]Seminario per la formazione continua degli assistenti sociali, Roma, 21 Ottobre 2016 (atti in corso di pubblicazione).
[4]Andrea Ciampani (a cura di) – L’Amministrazione per gli aiuti internazionali – La ricostruzione dell’ Italia tra dinamiche internazionali e attività assistenziali. Ed. Franco Angeli, 2012.